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Scrivere di food sul web: le parole giuste per evitare la nausea
Sono sempre stata interessata al mondo del cibo: vegetariana da anni, ho attraversato la fase raw-food, la fase “autoproduzione o morte!”, la fase vegan, la fase bio-sei-solo-tu l’amore-mio, la fase finger food e quella del cibo sano che va piano (leggi slow) e non viene da lontano (ossia: km zero). O se viene da lontano (ché l’etnico mi fa impazzire, si tratti di thai o cucina tipica siciliana), che sia etico. Insomma, le mode alimentari le ho frequentate da vicino, con la dovuta leggerezza e senza la pretesa di coerenza. Catapultata qualche anno fa nel mondo del copywriting e della scrittura online, mi sono trovata a comunicare nel settore food e a scrivere sul web di ricette e di chef stellati, per e-commerce alimentari e ristoranti.
Recentemente però mi sono accorta che la scrittura nel settore del food, il content marketing che parla di cibo, è tanto appetitosa quanto ricca di insidie. Parole come “autenticità” o “genuino” vengono ripetute all’infinito dai brand più disparati, per non parlare di “tradizione” o “specificità del territorio”. Un giorno, in piena crisi verbale, ho pensato: se ripeto ancora una volta naturale in questo testo verrà voglia di McDonalds anche al cliente.
Ho pensato allora di scrivere e condividere qualche riflessione che possa essere d’aiuto o d’ispirazione a chi sta iniziando a muoversi in questo ambito. Non parlerò di food marketing in generale, né di social, di hashtag e #foodporn, non perché non siano concetti fondamentali (anzi!) ma semplicemente perché vorrei concentrarmi su un aspetto di base: le parole, il linguaggio.
Perché scrivere per il web e comunicare nel settore del food evitando le formule preconfezionate e la noia (di chi scrive, ma soprattutto di chi legge) si può.
Creare esperienza: food vs cibo
Dai primi anni del 2000, circa, ciò che prima era il mercato del cibo è diventato l’esperienza del food. Un altro inglesismo inutile? Non proprio. Perché il punto è che in un mercato sempre più orientato alle esperienze serve una parola che porti un significato differente: non più legata al mero concetto della nutrizione, quanto a un immaginario più ampio. Un termine che ci riporti ogni volta a una serie di valori, simboli, significati, identità, e alla loro elaborazione. In una parola, cultura.
È necessario allora per chi opera in questo settore pensare a creare delle esperienze, più che vendere il singolo prodotto. Anche nell’ambito della comunicazione, non è possibile per le aziende o le attività di ristorazione limitarsi alla promozione del prodotto “cibo”; sarà doveroso ideare un messaggio e dei contenuti utili per l’utente. Il web ce lo ha insegnato anche in altri settori: la promozione del brand passa attraverso l’offerta di contenuti e risorse utili.
Parole più sexy di altre: i cinque sensi, la narrazione, la persuasione
Creare valore, vendere esperienza: sì, ma per farlo abbiamo bisogno delle parole giuste. Così come non parliamo più di cibo ma di food, raramente parleremo di “mangiare”: piuttosto troveremo dei termini che si riferiscano all’atto del condividere, soffermandoci sul contesto sociale (e social!), o del gustare, sottolineando l’aspetto sensoriale.
Alcune parole sono certamente più “sexy” di altre: avvicinano e incuriosiscono, creando attenzione attorno a un prodotto o a un brand.
Una buona regola per evitare di appiattire il discorso è quella di non fornire un giudizio già impacchettato (esempio: “Questo formaggio è buonissimo!”) ma raccontare, con semplicità e profondità: cosa rende unico un determinato prodotto, una certa azienda, un’attività, un ristorante?
Piccola digressione narrativa che spero serva a spiegare meglio cosa intendo:
Una volta una ragazza mi chiese di leggere il suo manoscritto, un romanzo che ha poi pubblicato con successo.
Ricordo di averlo letto con grande interesse, e, nel darle poi il mio parere, di essermi soffermata su una differenza per me cruciale. Mentre la protagonista del libro, Maria, veniva descritta con minuzia (i capelli scuri e ricci, che non stavano mai al loro posto dietro le orecchie, i polsi e le braccia forti, capaci di sollevare pesi per un giorno intero, un sorriso che, nel suo schiudersi, creava delle fossette sulle sue guance), il suo corteggiatore era semplicemente “bellissimo”. Non solo: per cercare di conquistarla cantava anche “canzoni bellissime”. Wow. Non sono mai riuscita a dargli un volto, né una voce, né a immaginarne le melodie.
Per me era un uomo anonimo, come tanti altri, mentre Maria aveva, fin dalle prime pagine, il volto di una delle mie attrici preferite.
Ed era, senza dubbio, bellissima, ma non c’era alcun bisogno di dirmelo: io Maria la vedevo.
Cosa voglio dire con questo? Che nessuno vuole sentirsi dire che quel determinato formaggio è “buonissimo”, o “speciale”, o “squisito”. Di quel formaggio, di quella zuppa, di quel vino o quel pane il lettore vuole percepire l’aroma, conoscerne le caratteristiche peculiari. Sarà poi lo stesso utente a decidere che il formaggio è “buonissimo” (e, si spera, ad acquistarlo), o che il vino è “eccellente”, perché ne avrà immaginato tutte le caratteristiche, solleticato e incuriosito da un copy che descriva cosa ha davvero di speciale quel food.
Meno aggettivi, che stuccano e più racconto. Meno frasi fatte, più storytelling.
Ancora una volta, creare emozioni. Perché le emozioni hanno il potere di persuadere, non c’è nulla da fare.
Ehi! A proposito di linguaggio, hai già letto questo? Glossario minimo del copywriter
Passione, devozione, storytelling
Non a caso ho parlato di percezione, non ha caso ho detto che io Maria la vedevo: ho tirato in ballo i nostri sensi perché questi hanno una struttura narrativa: è un fatto biologico. I sensi sfruttano la nostra memoria, che vive di esperienze e che archivia tutto ciò che ci accade (e che percepiamo, appunto, attraverso i sensi) in forma di “racconti”. Attraverso questo processo accumuliamo conoscenza.
Ma non solo. Come sottolinea Alessandra Arpi di The Social Effect in questo articolo, lo storytelling efficace passa anche attraverso la fatica.
La prima volta che ho visto una puntata di Masterchef sono rimasta allibita; come è possibile che io, che non amo i reality e faccio estrema fatica con i talent show (e con i format televisivi in generale), mi sia trovata coinvolta dalle storie di questi cuochi amatoriali? Com’è che mi sono trovata addirittura a fare il tifo per Tizia o per Caio, anche all’interno di una singola puntata? È lo storytelling, bellezza! (e perdonatemi per quel “bellezza”);
Passione e devozione sono concetti che ricorrono di continuo nel mondo dei foodies (cioè tutte le persone interessate agli aspetti della cultura gastronomica), dagli chef stellati ai cuochi amatoriali, dai food blogger ai consumatori etici. E operazioni come Masterchef riescono bene nell’arte di narrarare queste passioni, questa fatica, tutte le aspirazioni dei partecipanti: lo spettatore non vede più dei semplici concorrenti ma degli eroi, che compiono un cammino pieno di ostacoli verso il loro sogno, la meta più ambita. Il filosofo che mescola cucina e citazioni da Nietzsche, il giovane cameriere dalla provincia che sogna di aprire un ristorante tutto suo, la mamma single, la ragazza timida ma ricca di talento… Solo cibo? Nah, molto di più: pura narrazione!
Dunque, in breve: per raccontare il food dobbiamo raccontare storie di passione, devozione e ostacoli. Ma con semplicità. Un lavoro ben faticoso, non trovate?
A proposito di Storytelling, forse può interessarti anche: Appunti di storytelling-parte prima
Qualche idea per affrontare il tema con parole sempre nuove
Il mio consiglio, come sempre, è quello di lasciarsi ispirare da tutto: leggere tanto aiuta a sviluppare un nuovo linguaggio. Ultimamente ho scoperto il libro Il riposo della polpetta di Massimo Montanari, che fornisce alcuni punti di vista interessanti sul mondo gastronomico e aiuta a variare un po’ il linguaggio. Ma l’ispirazione può arrivare da qualunque prodotto narrativo: un mio grande alleato quando scrivo di food è il topolino Remy, protagonista del film Pixar Ratatouille: un piccolo cuoco fantasioso che riesce a sciogliere il cuore del critico più temuto in città. Un esempio di come si possa parlare di “sapori genuini” e tradizioni attraverso una narrazione affatto banale.
Un buon esercizio è quello di giocare con gli accostamenti: dalle sinestesie, che mettono in gioco diverse sfere sensoriali, al potere evocativo dei binomi. Food e cinema, food e viaggi, food e amore. Creare storie brevi, recensioni, interviste; fornire ricette e tutorial. E poi c’è l’ingrediente magico: la condivisione. E il successivo coinvolgimento del pubblico: ascoltare il lettore (e il cliente) è una buona pratica anche in questo settore.
Per farvi un’idea di una buona comunicazione nel food vi suggerisco di dare uno sguardo al sito della startup Cucina Mancina, la prima food community per chi mangia differente. Buone storie per lasciare a casa le formule preconfezionate.
L’immagine ha il solo scopo di rappresentare il prodotto?
No. L’immagine ha lo scopo di far venire l’acquolina in bocca. L’immagine deve invogliare, trasmettere gioia, veicolare un messaggio di condivisione del piacere.
Io stessa quando lavoro alla stesura di un post maledico il momento in cui mi metto a scrivere di food e, di conseguenza, a cercare delle belle immagini, prima della pausa pranzo!
A seconda del pezzo e dell’argomento possiamo scegliere di puntare su colori e i contrasti, sulle composizioni geometriche, o su immagini che rappresentano delle situazioni sociali. Immagini emozionali, evocative, succulente… quanti aggettivi, eh?
Il punto è: scegliete delle immagini che non mostrino il cibo; scegliete delle immagini che suggeriscano l’esperienza del food! (ecco qualche esempio fornito da Unsplash, uno dei siti di immagini gratuite che preferisco)
Queste sono le mie ultime rifessioni in tema di food, linguaggio e storytelling. E le tue? Quali sono gli aspetti più importanti per comunicare e scrivere bene in questo settore? Lascia la tua opinione nei commenti!